La
post-modernità,
nel lunario della Storia, purtroppo non segna esattamente il trionfo
della tolleranza; quanto la piena e accondiscendente integrazione
della violenza
nell'agire quotidiano, nonché il mimetismo della discriminazione
entro pseudo-democratici slogan politici, o la dissimulazione della
morte
nei bit dell'informatica, nell'azione telecomandata a distanza (di
una bomba o di un drone) e lontana perciò dagli sguardi borghesi.
Credere
di poter mondare la violenza limitandosi all'esorcismo laico del male
entro la cornice istituzionalizzata di un giorno dedicatovi, è
un'illusione. Il male
serba sempre il potere di sopravvivere al proprio “requiem”, alla
propria cerimonia. Esso è camaleontico
e mai assoluto; si modernizza, muta indefessamente sotto i nostri
occhi, assume forme inedite, apparentemente docili e remissive, si
avviluppa alle proposte di nettezza, sicurezza e rispettabilità
sociale, incancrenisce a tal punto nel tessuto comunitario sino a
rendersi – oggi - ancor più banale
di quanto non scrivesse Arendt.
Violenza e discriminazione etnocide e xenocide moderne, infatti, non
emergono affatto palesemente nel profilo acuminato di una Macchina da
guerra o nelle geometrie spigolose di uno stemma inequivocabile
(quale era la svastica), bensì sprofondano nel sub-strato dei
processi sociali, calcificano nella laboriosità economica del
tecno-capitalismo sotto l'egida insidiosa della deontologia d'impresa
che risponde al solo criterio della performance.
Il
male
modernizzato,
parafrasando Ferraris,
prospera laddove il cittadino si preoccupa solamente dei propri
interessi, si aspetta dallo Stato la garanzia della piena sicurezza,
ed offre in cambio
l'obbedienza, mettendo fra parentesi ogni problema di coscienza con
retrospettiva complicità verso l'ideologia che lo lusinga.
Ora,
i campi di
concentramento
consegnano ai posteri una sentenza inappellabile e inquietante:
dimostrano la
fallibilità della cultura,
la collusione dell'intelletto con la legittimazione
dell'antisemitismo, con la promanazione della discriminazione e della
morte. I campi di concentramento, in sostanza, svelano impietosamente
come il possesso di un alto grado di cultura non sia sufficiente per
mettere al riparo dalle più crudeli efferatezze. La patria della
filosofia è stata la stessa terra che ha partorito Auschwitz. In
quella circostanza, la cultura si è dimostrata tutto fuorché polo
opposto alla secolare dicotomia che la vede implicata in qualità di
humanitas
avversa alla barbarie.
Com'è stato possibile?
Ciò
si è verificato poiché cultura non è affatto sinonimo di civiltà,
né vi coincide appieno. Essa, all'opposto, secondo la tesi di
Sofsky,
è piuttosto un moltiplicatore
di violenza in quanto
fornisce opere e istituzioni, idee e giustificazioni ad una certa
prassi. In sostanza, una civiltà può essere tanto colta quanto
intollerante: l'abitudine, la prasseologia comunitaria che rema in
una direzione piuttosto che in un'altra, può assuefare al “male”
e muovere il singolo a non percepirlo correttamente; tanto che, in un
momento di paura, di insicurezza economica o crisi monetaria, egli
può inventare un capro
espiatorio. Ed ecco
che, mentre il cittadino si offre come docile e spietato ingranaggio
della macchina statale, perde con ciò la propria individualità,
smarrisce il senso critico e, in una ebbrezza
quasi durkheimiana, ogni capacità di ritenersi responsabile dei
propri atti.
A
margine di quanto detto, il processo al gerarca
nazista Eichmann,
origine dell’analisi arendtiana,
può forse fungere da spunto iperbolicamente provocatorio per la
tassonomia del
consumatore moderno:
l’innocente
criminale, la pedina
incapace di comprendere la contro-produttività del proprio agire,
ovvero la complicità perfettamente legale nel perpetrare la logica
alienante di un sistema che stimola lo sfruttamento della forza
lavoro, del cosiddetto terzo
mondo, del massacro di
animali a scopo alimentare e altrettanto indirettamente la
deforestazione, il saccheggio degli oceani, l’avvelenamento delle
falde freatiche, l’inquinamento ambientale e sonoro, l’emissione
di sostanze cancerogene, ecc.
Un
solo esempio paradigmatico, tanto per entrare nel merito, ce lo
fornisce il filosofo Latouche:
in
Indonesia dove si trova la maggior parte dei subappaltatori di Nike,
gli operai lavorano in media 270 ore al mese per un salario di circa
40 dollari, pari a 15 centesimi l’ora, il che permette di coprire
appena il 30 percento dei bisogni vitali di una famiglia di quattro
persone. La cosa più scandalosa è che il costo del lavoro delle
fabbriche di scarpe rappresenta solo lo 0,2 percento del prodotto
finito, mentre nello stesso tempo la ditta paga un assegno annuale
[1998] di 20 milioni di dollari […] alla star affinché presti la
sua immagine negli spot pubblicitari.1
Il
consumatore acquista e favorisce implicitamente ingiustizia e
sofferenza. Pecunia non
olet, dopotutto. E a
questo modo, conclude il filosofo, tutti fanno - come Eichmann – il
loro lavoro nel modo migliore, con criminosa forza di legge e buona
volontà. L’etica della performance
diviene la foglia di fico per nascondere il sangue e l’ingiustizia
del mondo2.
Ricordare
Auschwitz
significa allora agire pro-attivamente nel quotidiano, 365 giorni
all'anno e non per sole 24 ore, in uno sparuto lampo di coscienza.
Probabilmente,
raccogliere l'eredità dei campi sterminio,
si traduce nell'etica
del parresiastes
greco in chiave foucaultiana; significa parteggiare,
ricacciare l'ethos dell'insaziabilità e dell'illimitatezza mediante
una ragionevolezza
che orienti politicamente.
Il
concetto
di parresia
che
si incontra negli scritti di Foucault
è infatti la qualità etica del filosofo che accetta di non mentire
consapevolmente, ossia che si fa
esempio vivente di verità
prima ancora che enunciatore del vero, uomo libero e giusto perché
dimostra
i propri valori nel proprio comportamento; una qualità coraggiosa e
fondante la politica.
Come
riporta Foucault
nel suo Discorso
e verità nella Grecia antica (1985),
il
“parresiastes” è dunque colui il quale si rivolge al sovrano
denunciando le storture che ha dinnanzi, e pertanto accetta il
pericolo insito ad una simile esposizione. Nella sua forma estrema,
dire la verità, denunciare il male per non rendersene complici,
diventa un gioco di vita o di morte3.
La
voce del parresiastes
moderno deve promuovere
la multicultura,
muovere al dialogo
che celebra le differenze
nell'ottica della ricchezza, dell'integrazione
e
della pari dignità
senza che vi siano italiani di serie A e altri di serie B.
Questo
è raccogliere l'eredità della Storia.
Eludere
il compito per inedia o per facilità codarda o per opportunismo
politico, è un atto criminale.
Michele
Cavejari
1
Giustizia
senza limiti (2004),
139.
2
Ibidem.
3
Discorso e verità nella Grecia antica, (1996),
7.
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