Le voci sireniche dei mass media, vere e proprie agende
politiche di bit e inchiostro, sono i presagi e insieme i sintomi
dell'atmosfera culturale, vasti dispositivi confermatori di opinioni. Essi
traducono in prasseologia l'ideologia comunitaria, ovvero - nel travalicare la mera funzione referenziale
richiesta - forniscono una rappresentazione del contesto sociale alla
quale poi gli stessi attori sociali attingono per interpretarsi.
A ben guardare, tuttavia, se l'orizzonte culturale di
riferimento è ineliminabile, ben altra sorte dovrebbe spettare alla
trasposizione degli accadimenti; specie se questi ineriscono la relazione autoctono-alloctono.
Etnicizzare il pericolo o ghettizzare la minaccia, significa infatti
pregiudicare a priori ogni possibilità di dialogo oltre che falsare il giudizio comune entro una cornice
narrativa fittizia.
Il razzismo oggi è vivo e vegeto, anch'esso al passo coi
tempi, rivestito di scongiuri, annidato nell'esotico e spontaneamente alleato
al desiderio di sicurezza, alla rispettabilità sociale. Ebbene, l'impresa alla
quale l'apparato giornalistico per primo deve votarsi, è anzitutto la
promozione attiva della convivenza interculturale. Parliamo del riconoscimento
pieno dell'Alterità al fine di interagirvi con costanza ed elaborare una storia
comune.
L'obiettivo, perciò, non può che coincidere con
l'incorporamento dello straniero entro il pubblico di riferimento,
esonerandolo dal cortocircuito della pietà romanzata o della mera reificazione
a notizia appariscente. L'intercultural journalism, filone inaugurato da
Kennet Starck, può davvero fungere da slancio pionieristico cui ispirarci; ciò,
tanto per l'attenzione dimostrata verso i dettagli interculturali quanto per la
fedeltà all'entourage multiculturale.
Non serve, credo, ricordare come il protocollo deontologico
della Carta di Roma richiami instancabilmente i media ai principi di
non-discriminazione, alla precisione terminologica (migrante non è sinonimo di
irregolare!) e - soprattutto – li sproni
ad interloquire con i diretti interessati. Eppure, perlomeno in Italia, persino
il buon senso pare latitante. Nell'era
della rincorsa all'aggiornamento spasmodico, dell'accelerazione
“superficialistica” e dello scoop, il linguaggio è distratto ed infiamma
gli animi più di quanto si possa immaginare. Tacere le storie dei migranti
regolari solo perché non fanno scalpore equivale a tradire la realtà proprio
come strillare l'immigrazione con il lessico del crimine. Una prassi
comune soprattutto in politica, dove si seguita ad impugnare la “differenza”
come pretesto per strappare pugni di voti o a tipicizzare l'alterità nella
categoria del profugo, “l'infruttuoso esborso economico”.
Un paese che tema lo straniero può dirsi tutto fuorché
progredito, ma un'informazione che giochi su queste ancestrali paure è senza
dubbio ignorante e criminale. L'appartenenza etnica del
giornalista, infatti, non può essere un alibi, essa non inficia automaticamente
la narrazione della realtà ingessandola entro una monolitica visione del mondo:
la cultura è un prodotto dinamico, in continua evoluzione e ibridazione; un
patrimonio in costante arricchimento, espressione di un humus sociale
eterogeneo, creativamente complesso e aperto. Promuovere un'informazione
consapevole significa anzitutto sposare l'incontro con il “diverso” nel grado
più nobilitante e profondo, significa cimentarsi in esercizi di estensione morale
assolutamente vitali per un corpo occidentale in caduta libera.
di Michele Cavejari
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