‘’Dove potrò mai vedere colori del genere? E’ un grande privilegio per loro
vedere certi colori, si renderanno conto della fortuna che hanno?’’
Siamo verso la fine degli anni ’90, e David e sua sorella Jennifer vivono
con la madre divorziata in una situazione familiare non propriamente rosea.
Una sera i due, rompendo il telecomando durante una contesa, vengono
soccorsi da un misterioso riparatore a domicilio. L’uomo, con la scusa di
fornirgliene un modello speciale, li catapulta dentro Pleasantville, serie tv
anni ’50 in bianco e nero, mondo perfetto che incarna senza sbavature il sogno
americano. Come sostituti dei fratelli Bud e Mary Sue Parker allora si ritrovano
intrappolati in un luogo anacronistico, schematico, e privo di colori.
E’ proprio partendo dall’assenza di colori, in contrasto coi minuti
iniziali della pellicola, che Pleasantville colpisce l’occhio dello spettatore
ormai disabituato. Ed è appunto con l’uniformità cromatica della sitcom anni
’50 che si introduce il tema centrale dell’opera: l’importanza della diversità.
Tutti sono limitati, ancorati al proprio ruolo, in questo caso peraltro
proprio perché legati al plot del film. Nessuno sbaglia mai in virtù del
copione stampato in testa, il
pericolo non esiste poiché tutto è finto e controllato: il fuoco non brucia, la
squadra di basket centra ogni canestro, i padri di famiglia tornano a casa
trovando moglie accogliente e cena pronta. Sempre. Ora però ci sono due
fratelli provenienti da una società completamente diversa, e che si scoprono,
sebbene non intenzionalmente, ad alterarne lo status quo.
Jennifer, più ribelle di David, straccia il ruolo della sua Mary Sue Parker
e fa conoscere il sesso al ragazzo che la corteggia. Nel grigiore, ecco che una
rosa si colora di rosso, rosso vero! Una donna in seguito si approccia all'autoerotismo,
l'amor proprio che abbatte un tabù vecchio di secoli e che una volta caduto fa
prendere fuoco a un albero, fuoco vero, che brucia. Principia una reazione a
catena. I cittadini vedono l’incendio, i pompieri comprendono la ragione del
proprio mestiere, i giovani si confidano tra loro, la sessualità viene
(ri)scoperta, qualcosa di diverso colora
il grigiore di Pleasantville.
Se la spinta iniziale è quindi fornita da un istinto carnale e vitale per
l'uomo, è poi affidato all'arte e alla cultura il compito di diffondere la
diversità, o meglio la sua bellezza capace di infrangere i muri limitanti che
forniscono un solo punto di vista.
Vi è chi capisce e accoglie in fretta questo nuovo modo di vedere le cose,
chi invece ne è sopraffatto e ne ha paura, non riuscendo a sradicarsi dalle
imposizioni delle precedenti abitudini, e si nasconde. Chi, infine, guarda il
tutto con sospetto, portando l'idea che i vecchi valori vadano preservati e
protetti, che sia necessario fare qualcosa per frenare questo virus. Si giunge alla separazione, alla
violenza del dividere il piacevole
dallo spiacevole, all'abbattimento
fisico di quei nuovi segni di ribellione che, poiché simboli, parlano nel
profondo senza aver bisogno di parole: colpiscono.
Nel mondo di Pleasantville, dove tutto era perfetto, prima non c'era la violenza, ma ora sì, e i benpensanti bruciano i libri, un tempo bianchi
e innocui, ed emanano leggi repressive per fare ordine.
Un contrasto che è sempre il solito, il nostro, quello del mondo che c'è
qui fuori. Uno scontro che lì, in Pleasantville, viene ovviamente risolto, con
la forza del dialogo, della logica, del coraggio di sconfigge la paura non del
diverso in sé, ma di se stessi nell'accettare il diverso, persino quando è
bello.
Perché il diverso va oltre il piacevole, e comprende sì il bello, ma anche
il triste, abbraccia il brivido, l'euforia, la soddisfazione, e anche, certo,
lo spiacevole. E non è un difetto questo, ma un'opportunità; perché in un mondo
senza colori, alla fin fine, che senso può mai avere vivere?
di Davide Storti
Nessun commento:
Posta un commento