sabato 10 gennaio 2015

Terrorismo e multicultura, una riflessione sul potere del dialogo.

Il recente attacco alla satira e alla libera informazione configura l'episodio francese come esempio tragicamente paradigmatico; eppure, l'intento primario del terrorismo è sempre e precisamente quello di ammutolire il linguaggio, rilanciare localmente e globalmente lo scontro fra civiltà sorde al compromesso.
Fucili, bombe o kamikaze distillano ovunque lo stesso veleno per catalizzare gli sguardi sull'humus locale, sull'odio reciproco. Il terrorismo ingessa il linguaggio nel cortocircuito dialettico dell'occhio per occhio, foraggia la diffidenza verso l'alterità cosicché la dicotomia noi-loro, rimasta a lungo latente sotto la coperta della multiculturalità, torni a lacerare e indebolire le nazioni.

L'intento primario di ogni attentato è insomma ribadire l'incorreggibile e inconciliabile spigolosità della differenza etnica, incentivare la chiusura mentale affinché il Bene spetti dogmaticamente sempre all'una e il male all'altra posizione in gioco, senza zone grigie.
Il terrorismo funziona come anti-lingua: nel rifiuto al dialogo esso può esorcizzare l'unica arma in grado di estirparlo, la complessità del mondo. L'attentatore congela monoliticamente i rapporti entro un preciso dualismo retorico, una netta separazione senza compromessi che mina qualsiasi punto di contatto fra le parti e produce piuttosto i vessilli sotto cui schierarsi.
Giocoforza, in una nazione attaccata, i tratti culturali e fisici degli alloctoni, dei “diversi” per credo o colore, gli stessi che sino ad allora erano stati tollerati con ordinaria insofferenza o paludati in una convivenza spesso e volentieri intesa come mutuo evitamento, improvvisamente possono fungere da capro espiatorio. Dato fuoco alle polveri, i rapporti sociali coagulano facilmente entro i calchi originari, ricostituiscono i rigidi bordi del clan d'appartenenza e producono narrazioni pericolosamente etnocentriche.
Allo smarrimento disgregante del post-attacco, subentra la facile e spietata risposta retrospettiva che il terrorismo sin dall'inizio punta a fomentare: la sclerotizzazione dell'Occidente in fronte avversario compatto che ne riveli la vera natura, che lo traduca nella riconoscibile fisionomia dell'infedele, ossia in fazione fermamente convinta di detenere il monopolio esclusivo della verità, sicura della giustezza e correttezza esclusiva del proprio modo di vivere, pronta a invadere, bombardare e punire altrettanti innocenti.
 
Ora, chiudere le porte al dialogo interculturale, specie in questi tempi, rischia dunque di essere una mossa infelice, un viaggio senza ritorno. In primo luogo, tranciare i fili del confronto civile con la comunità islamica sul territorio italiano ed europeo sarebbe una risposta miope, dettata solo dalla paura e dalla rabbia; una politica che ergerebbe una cortina verso l'Alterità, rendendola se possibile ancor più incomprensibile, inaccettabile. C'è semmai bisogno di maggiore disponibilità al dialogo e al confronto, affinché l'islam moderato guadagni la maggioranza quantomeno in occidente. È infatti il muro dell'incomunicabilità a ingenerare i fanatismi, la ghettizzazione della diversità e la stigmatizzazione della minaccia; esattamente ciò che alla lunga alimenta l'odio e l'incomprensione ingenerando nuovi episodi e fenomeni violenti.
In secondo luogo, fingere che il fanatismo sia un  problema arginabile geograficamente è una menzogna tanto grande quanto ingenua. Gli attentatori dello scorso 7 gennaio in Francia non erano affatto immigrati, ma cittadini francesi. In sostanza, possiamo chiudere le porte e le frontiere, ma negare il dialogo significa alimentare i focolari della chiusura mentale, consentire alle fiamme dell'etnocentrismo di forgiare fanatismi autoctoni, fondamentalismi e diffidenze pronte a sfociare in razzismo e rivendicazioni, vendette, regolamenti di conti interni.

Occorre procurarsi anzitutto un passe-partout in materia di religione, il grimaldello della non-violenza, cioè del dialogo, affinché non si cada nella trappola. Questo era già il pensiero di Gandhi, le parole che nel 1962 consegnava al suo Buddism and Theosophy.
Il Mahatma, per esempio, aveva lungamente studiato il Corano e la vita del Profeta Maometto con ciò che definiva «il distacco di uno studioso delle religioni»; ed era giunto ad una nitida conclusione: il testo sacro all'Islam, se letto senza tradirne lo spirito, veicola un insegnamento visceralmente pacifico, affatto sanguinario. Il Profeta Maometto, scriveva Gandhi, «non si guadagnò la propria autorità brandendo la spada, ma con anni di lotta con Dio per conoscere la verità. Se si cancellano quegli anni preziosi, si deruba il profeta della sua dignità». L'antifona è chiara. Per quanto un ideale possa essere nobile e retto, permarrà lontano tanto dalla verità quanto dal bene fintantoché propugnato nella sordità verso critiche e visioni antitetiche.
Eppure, tanto nel nome del Cristianesimo quanto dell'Islam, le pagine della storia continuano ad almanaccare le più grandi storture. L'albero della religione, paradossalmente, «con le sue mille diverse foglie, ha prodotto più divisioni che riappacificazioni»; il tutto perché l'uomo proprio non vuole intravedere l'unico tronco che le irrora, come sostiene Gandhi.

Costruire spazi di dialogo multiculturale e religioso, di questi tempi, non sarebbe affatto sinonimo di una debole concessione al fanatismo arabo, quanto un'apertura all'islam moderato, affinché i rapporti civili e valoriali vengano intensificati, non definitivamente troncati. 
Urge un cammino, in sostanza, un esodo interiore, il cui unico traguardo sia l'estensione morale dei propri orizzonti per spezzare l'idolatria al Verbo monolitico quale presunto, esclusivo e messianico liberatore. Lo sguardo che ci è richiesto e che dobbiamo costruire dev'essere caleidoscopico, panoramico, prospettico, “profondo” giacché orientato alle relazioni umane per forgiare una storia comune, su più livelli.

di Michele Cavejari

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